I grandi sistemi astronomici degli antichi partivano dalla circonferenza come elemento uniformatore del sistema: i pianeti seguivano movimenti circolari complessi, inscritti in altri cerchi, per far coincidere il modello con i dati empirici osservati.
Il magistrale sistema di epicicli e deferenti generava una geometria immaginaria dei moti circolari, grandemente estetica e abbastanza precisa.
Qualche secolo dopo le circonferenze divennero “ovali”, si fecero ellittiche.
Poi, altri secoli dopo, esplosero abbandonando la sicurezza della circonferenza, passando da geometrie euclidee a un sistema fatto di geodetiche e di gravità come deformazione di spazio-tempo.
Una cosa che “riesco” a scrivere, probabilmente in modo non corretto, riesco a intuire, ma non riesco davvero a possedere.
Una volta lessi “L’abc della relatività di Bertrand Russel”. Di questo Abc capii dal basso dei miei studi di filosofia estetica un pezzettino della “A”, ma mi bastò per esserne affascinato e rapito.
Un correlato di quella lettura fu lo sconvolgimento di un piano di ragionamento comune, “quadrato”, bidimensionale, per entrare in una visione entusiasmante di compresenze complesse evocative e indefinite, per quanto matematicamente rigorose, simile al passaggio dall’arte figurativa a Dan Flavin, dalla conversione dell’Innominato al flusso di coscienza.
Credo che un terribile baco del sistema anche a livello psicologico sia restare ingabbiati nella circolarità.
I pensieri circolari sono fissi, ansiogeni, autostronzi.
Quando si spezza quella circolarità (a me capita mentre cammino, o mentre ascolto musica, o mentre suono, ad esempio), quando si spezza l’eterno ritorno dell’uguale, si abbraccia una nuova forza di gravità che deforma lo spazio-tempo. In una specie di liberazione, di felice apertura.
Forse è questo anche l’Infinito in cui è dolce naufragare, forse è là quell’oceano di silenzio senza fermate né confini, forse qui portano le sequenze consolatorie infinite di Max Cole.
Forse, einsteinianamente, è la quarta dimensione della felicità.