
Vivo in provincia ma non mi sento provinciale. Guardo attorno l’ossessione al materiale, al lavoro come occupazione di tempo che altrimenti sarebbe angosciante spazio da occupare.
Guardo intorno le ansie e l’insoddisfazione, una “age of anxiety” avvolgente e assurda in cui si finisce per essere invischiati. Poi vedo Napoli.
Intorno la natura violenta: il Vesuvio, i Campi Flegrei, Baia sommersa dalle acque, Ercolano dalla cenere e dai lapilli, Pompei dal gas del vulcano.
E vedo una città che fa del fato, potenzialmente tragico ogni giorno, un elemento non fatale, e nemmeno fatalista, una città che vive ogni giorno come se fosse uno, e mai l’ultimo, stimolata dalla urgenza del pericolo naturale e salvata da questo.
Una città forte, vigorosa, che mostra la differenza tra i concetti di “verace“, com’è lei, e “vero”, come mai nessuno può essere ma che tanti fingono di essere.
Verace è cercare il meglio in un tempo dato, cavarsela al meglio, fottersene, generare un proprio splendido ordine nel totale caos della vita.
Verace è darti del tu, essere aperto se sei aperto, accoglierti di cuore, essere gentili (“non abbiamo al ristorante la macchina del caffè scendo al bar a prendertelo”. E poi non farlo pagare perche era freddo…).
A Napoli capisco perché Giacomo Leopardi vi passò gli ultimi giorni: in qualche modo è sempre un ultimo giorno a Napoli, per questo è gioioso, chiacchierone e disinteressato.
Il più pessimo tra gli ottimisti, uno che non riusciva a scrivere versi pieni di luce anche mentre diceva cose terribili, morì qui, attirato al centro della terra, nel luogo che vedi e poi muori, e poi rinasci per rivederlo.
A Napoli capisco cos’è uguaglianza: non un fatto burocratico ma un concreto e verace “essere alla pari“. Lo noto in strada dove non vige la regola del codice stradale ma quella della affermazione della decisione e della intenzione. Auto, motorini, monopattini, pedoni hanno spazio totale di manovra sempre, pare un caos ma in realtà è un ordinata sovrapposizione di decisioni: chi mostra di volere, puó. A prescindere dal mezzo. Se con decisione vuoi passare, passi, e gli altri si fermano rispettando la tua spinta decisa all’azione.
A Napoli si passeggia, non si cammina: anche la postura è diversa, con le spalle ferme, le mani che non mulinano come nella frenetica Lombardia, ma con un ritmo fusion, di attacchi. pause, rallentamenti, riattacchi.
A Napoli vige il codice sonoro. Si suona in strada non per avvertire di qualcosa ma per parlarsi o insultarsi. Si parla e si suona per coprire il silenzio, che dà inquietudine.
Ci si parla con il gusto di parlare, ci si ferma a parlare, perché il tempo si dilati e le 8 diventino un orario imprecisato tra le 8 e le 8 e 45. Perché il tempo esatto è inquieto e inquietante e la regola ferrea è soffocante: così si dilatano i secondi, si allunga la durata e si vive più a lungo.
Vengo da un buchetto dello sperduto nord, a volte qua è inevitabile sentirsi soli, a Napoli no. Non credo sia possibile e credo che lo spirito, in fondo tragico e greco di quei luoghi, faccia di tutto per allontanare la solitudine e la morte, senza negarli.
Domani, domani staremo soli e in balia delle cose brutte.
Ma oggi resterà sempre oggi e a Napoli si vive una lunga sequenza di oggi.
Penso che prima o poi vivrò a Napoli